Se si guarda alla tipologia del potere capitalistico, nelle due varianti parlamentare e fascista, si vede che dagli anni Ottanta del secolo sorso, c’è stato un progressivo svuotamento di quella parlamentare e un ritorno in forme criptiche di quella fascista, grazie ad una immersione del momento coercitivo in fondamenta economiche, istituzionali e ideologiche più ampie e profonde. Il compatto capitalismo assoluto che ne è sortito, ha spinto la sinistra a introiettare l’alternativa ciclotimica tra un cambiamento che non incideva nella realtà, e un governo cui sfuggiva il potere effettivo. A seconda che prevalesse l’uno o l’altro polo, essa si divideva in fazioni contrapposte, che si rimproveravano reciprocamente di essere in preda ad idealismo, frustrazione ed ingenuità, o a realismo, adattamento, astuzia di basso conio. L’assolutismo della realtà capitalistica è stato l’ostacolo che, provocando la sua scissione in fazioni contrapposte, ha tolto alla sinistra nella sua interezza la possibilità di una riflessione teorica che fosse anche una prassi adattata. Syriza, nata con lo scopo ambizioso di superare questa divisione, ha finito solo per assicurare una carriera politica al manovriero Tsipras. L’assolutismo capitalistico è dunque inscalfibile, oppure c’è stata un’incapcità soggettiva di perseguire quello scopo? Certo, non è facile uscire da una depressione trentennale, e questo tanto più, quanto più il riflesso abbagliante della realtà è che il capitalismo continua a reggere di fatto la totalità delle regolazioni sociali. Eppure, la crisi capitalistica apertasi nel 2007 non è un sogno ad occhi aperti, ma un incubo reale, altrettanto reale quanto la pervasività della realtà capitalistica. Si potrebbe allora affermare che il significato dell’odierna crisi, che fa seguito ad altre ormai consegnate ai libri di storia, è che, in contraddizione con quanto quotidianamente suggerisce la sua stessa ontologia, il capitalismo non potrà mai pervenire a quella chiusura sistemica che l’ideologia dell’autoregolazione di mercato e dei flussi globali suggerisce. Se l’indimostrabilità del capitalismo si apparenta del dibattito logico-teologico, la “distruzione creatrice” et similia sembrano teorie fatte apposta per i miscredenti che, per timore del giudizio sociale, continuano ad andare a messa. Quel che è certo, però, è che una crepa nella realtà c’è, in cui la sinistra può infilarsi, buttandosi alle spalle la sua annosa, disperante ciclotimia. Ma come avviare quelle pratiche di una nuova realtà sociale, che le facciano superare ad un tempo la propria autofissazione alienata e la falsa ontologia esistente? Evocando nomi suggestivi come quelli di Gramsci e Berlinguer, Tsipras era partito predicando la necessità di un nuovo pensiero egemonico, ma ha finito per biascicare le solite formule del politico di professione. Sull’argomento non ci sono lezioni da dare, ma riflessioni da avanzare, colloqui da tenere, discorsi da scambiare, anche come terapia di quella depressione che sembra inguaribile. Nell’epoca del marketing, la prima difficoltà che il nuovo pensiero egemonico incontra è che l’egemonia è un concetto composito: critico e analitico, da un lato, finalistico e normativo, dall’altro. È come dire “Bevete Coca Cola, diventerete schifosamente grassi”. Bisogna perciò scomporre il concetto, ed evidenziare come nel suo lato critico e analitico, esso corrisponde all’egemonia in atto, in quello finalistico e normativo alla nuova egemonia. L’egemonia in atto si presenta come una realtà monolitica, ma in effetti essa è un “testo bilingue”, il “mercato” e la corrispondente “traduzione interlineata” dell’economia critica. È essenziale che quest’ultima balzi fuori dalle ridotte in cui è stata confinata, e mostri la parzialità di una scienza economica che celebra i suoi fasti nelle business schools e nei premi Nobel. Ma la nuova egemonia non può essere solo uno scontro intellettuale, ma deve essere soprattutto una “filologia vivente” che parla il linguaggio intellettuale e morale della “riforma economica”. Su questo terreno, la partita si gioca tra gli “schemi naturalistici” dell’egemonia in atto e il “controllo metalinguistico” dell’agire storico collettivo. L’egemonia in atto è basata sul conformismo spontaneo “dell’esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili”. La nuova egemonia non può che essere la “compartecipazione attiva e consapevole”, resa possibile dal rapporto di reciprocità tra governanti e governati, e dagli istituti che ne garantiscono l’esercizio. La nuova egemonia, dunque, non è genericamente la “democrazia”, ma quell’assetto sociale in cui si realizza consensualmente la “riforma economica”. Questo fatto del consenso, porta a postulare la necessità di un’egemonia di transizione, che non può che essere strategica, nel senso che si articola in patti associativi tesi ad imporre la norma di reciprocità, sul cui riconoscimento verte il conflitto egemonico. Oltre che concetto critico-analitico e finalistico-normativo, l’egemonia è dunque una prassi che comporta il conflitto. Con quali modalità si può manifestare questo conflitto? Anche qui, la vicenda di Syriza offre spunti di riflessione. Pare che nel gruppo ristretto del primo governo Tsipras si siano fatti piani di sequestro dell’oro della Banca di Grecia per far fronte al prevedibile blocco che sarebbe seguito ad un eventuale rifiuto del memorandum. La questione è se una simile mossa avrebbe avuta una sua legittimità, tale da non configurarsi come atto puramente arbitrario di una parte contro l’altra. Le elezioni politiche di gennaio e il referenudm di luglio, per quanto ambivalenti nel mandato, restare nell’euro ma rifiutare l’austerità, offrivano senz’altro una tale legittimità, ma il punto è il “secondo colpo”: un tale atto di forza avrebbe garantito nell’immediato gli interessi della maggioranza dei greci, oppure avrebbe dato luogo ad un crollo tale da fornire agli adepti dell’egemnoia in atto la migliore prova della inaggirabilità della realtà esistene? La risposta a questa domanda non può consistere solo nell’azzardo del leader, ma nella costruzione di ulteriori patti associativi, certamente garantiti dal leader, che precedono e seguono l’eventuale atto di forza. La forza in sé diventa un atto banditesco se non è capace di raccogliere la maggioranza attorno al principio di reciprocità, che si articola in patti che garantiscono temporanemanete interessi che l’evolversi stesso della situazione tende a trasformare. Tsipras non l’ha fatto, scegliendo la via della vecchia politica. Ma la vicenda greca ha evidenziato senza ambiguità i dati del problema, mostrando come il rifiuto di usare la forza in un quadro dinamico di legittimità porta non alla “democrazia”, ma alla sottomissione di una parte all’altra che ribadisce gli assetti esistenti. I nuovi movimenti, da Podemos al new old labour di Corbyn alla “coalizione sociale” di cui si fantastica in Italia, non possono non tenere conto di ciò, pena un ritorno al mutualismo, se non peggio, una ricaduta nel politicismo che non li differenzierebbe in nulla dalle ormai stantie pratiche della sinistra del dopoguerra. Durante questo periodo, quando il fine egemonico non è stato ripudiato ufficialmente, com’è accaduto nelle Bad Godesberg in cui di volta in volta sono incorse varie sezioni della sinistra europea, l’egemonia di transizione è stata praticata in modo tale che la forza subalterna proponente, anziché assimilare la forza di governo dominante, è stata assimilata dall’egemonia in atto. Il mezzo è così divenuto il fine, e l’egemonia si è ridotta ad una “ragion di partito”, mascherata da un vago solidarismo umanitario. Nella sua versione più alta questo è stato il caso del togliattismo, mentre uno dei casi più miserandi di subordinazione del fine al mezzo è stato il blayrismo, che ha trasformato il partito in una macchina di governo, interessato solo a detenere il potere, cioè a servire gli interessi contrari alla propria base elettorale, giudicata “arretrata” e quindi bisognosa di “riforme”. Questo “centro” ottenuto usando la sinistra per soddisfare gli interessi della destra, ha distrutto la fiducia tra il popolo della sinistra e le sue organizzazioni. Compito prioritario è dunque un’intensa lotta ideologica volta a ristabilirla, poiché solo su di essa si potrà fondare una conquista del governo che, all’interno di quel quadro di legittimità dinamico sopra evocato, preluda all’egemonia come fine, cioè ad una democrazia che ecceda economicamente quella liberale, e si distingua culturalmente dalle forme di comunismo storico.
Tsipras
Tsipras, l’euro, Lenin e l’egemonia di Gramsci
Il 73% dei greci che, secondo un sondaggio di neanche un mese fa1, continua ad essere favorevole alla permanenza della Grecia nell’Eurozona, cioè a favore dell’euro, è un fatto che si tende a scacciare come si fa con una mosca noiosa. Eppure è la spia di quell’egemonia di fatto in cui uguali e diseguali, ricchi e poveri, agiati e disagiati continuano a nutrire lo stesso sogno di opulenza, conto in banca e brio social che l’euro promette, coloro che già lo vivono o lo hanno vissuto affinché continui, e coloro che non lo hanno mai vissuto affinché si realizzi. A quanto pare, Syriza ha pure pensato a più o meno confusi piani B, compreso un assalto alla Banca centrale greca degno di un film di Sergio Leone, ma alla fine Tsipras è rimasto nel recinto del “mito europeo”, sforzandosi di far credere di poter trasformare il desiderio di opulenza, conto in banca e brio social in pratiche “virtuose” di ricchezza collettiva, espresse però sempre in euro. Ma la moneta non è un puro significante, di cui si può cambiare a piacimento il riferimento. Essa viene partorita dalle stesse doglie che generano il significato, cioè la struttura dell’economia che fa dell’opulenza, del conto in banca e del brio social delle manifestazioni di superficie di un individualismo profondo, che a sua volta è matrice di quell’assetto economico. Di fronte a questa compatta autoregolazione, Syriza, sin dal suo programma elettorale, ha mimato le movenze del Lenin del 1917, che riteneva che la disciplina burocratica di un’azienda statale come la Posta, assunta a modello per tutta l’economia nazionale, si sarebbe automaticamente rovesciata in una più alta disciplina sociale di tipo comunista2. Ma si sarebbe ormai dovuto comprendere che gli schemi comportamentali dell’egemonia di fatto non sono trasportabili sic et simpliciter nel “nuovo mondo”, le cui nuove abitudini vanno invece prodotte ex novo, con “dialoghi”, ovvero specifici processi di produzione sociale della nuova intersoggettività. Si osserva che la fuoriuscita dall’euro e il ritorno alla dracma era lo stesso obiettivo che si ponevano i liberisti assoluti à la Schäeuble3. Ma una cosa è essere cacciati dall’euro e un’altra è ripudiare l’euro. L’esito referendario, utilizzato senza machiavellismi, avrebbe potuto assumere il valore catartico di una fuoriuscita collettiva dalla bolla cognitiva dell’invidualismo, in grado di fornire l’energia necessaria a prevenire quella “verticalizzazione” del movimento che giustamente ora si stigmatizza4. Ma Tsipras è stato mai veramente interessato a trasformare la massa che esprime passivamente il dato statistico del 73% di favorevoli all’euro, in una collettività di individui che interagiscono attivamente in direzione di nuovi comportamenti che nessuna statistica può ancora prevedere? Sulla scena si affaccia ora Corbyn che, in Inghilterra, nel tentativo di rianimare il Labour Party dal lungo coma blairiano, propone un quantitative easing “per il popolo”5. Ma basta un cambiamento di segno delle vecchie pratiche dell’egemonia di fatto per innescare nuove pratiche di ricchezza sociale? L’impressione è che il semplice cambiamento di segno di tecniche e pratiche dell’egemonia in atto sia l’automatismo di una sinistra, o comunque di un “movimento”, che ha difficoltà ad andare oltre gli schemi rivoluzionari dei padri. Così, il buon Tsipras, con il compromesso firmato invocando Lenin6, ha creduto di dover riprodurre sotto il Partenone gli avanti e indré del grande Ilič, dimenticando la lezione intanto intervenuta dell’egemonia, che dovrebbe essere ormai l’abc di chi è interessato ad “orizzontalizzare” la politica. La posa leninista di Tsipras, invece, ha sprecato una preziosa occasione di passare dai sogni e dalle abitudini dell’inveterata egemonia di fatto, alla presa di coscienza della nuova egemonia produttrice di una realtà radicalmente altra, in grado di superare la matrice individualistica con cui Tsipras invece, in nome di un principio di realtà economica prodotto da quella stessa matrice, è venuto di nuovo a patti. L’obiezione è che il “passaggio” dalla vecchia alla nuova egemonia avrebbe provocato e distribuito solo miseria e privazioni, in uno stato di isolamento della Grecia che sarebbe presto divenuto insostenibile. Ma il compromesso accettato da Tsipras, mentre prolunga l’equivoco dell’eurosogno, procura hic et nunc una ulteriore discesa verso più forti diseguaglianze e crescenti miserie, per quanto compensate dall’acquolina in bocca della “fantasia” individualistica, che promette future risalite di uno zero virgola di prodotto interno lordo. Il risultato, dunque, non cambia, e per di più non innova “tecnicamente” la politica, anzi, ancora una volta, la riduce a quel “gioco autonomo” che alimenta l’estraneità tra governati e governanti, i primi oggetto passivo di decisoni prese altrove, i secondi accomunati dal feticcio dei rapporti di forza. Il no referendario ha offerto a Tsipras l’occasione di essere un politico della nuova egemonia, che agisce non accomodandosi al dato statistico, ma stimolando la base sociale che in esso si riflette a divenire protagonista di un “nuovo gioco” statisticamente non prevedibile. Egli invece ha scelto di essere uno stucchevole epigono di un leninismo così scolastico, se non furbesco, da rovesciarsi in una piatta politica “socialdemocratica”, proprio quella che i turiferari dell’egemonia in atto gli rimproveravano di non sapere incarnare, quando ancora titubava a buttarsi nelle braccia rassicuranti del vecchio che ristagna7.
- Grecia, Syriza vola nei sondaggi: se si votasse oggi, avrebbe il 42,5% e maggioranza assoluta [↩]
- Lenin, Stato e rivoluzione, p. 25, [↩]
- Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 [↩]
- Sempre Cristian Marazzi sul “manifesto” del 14 agosto 2015, p. 14 [↩]
- J. Corbyn, Invest in our future, 8.7.2015. [↩]
- Interview with Alexis Tsipras: “Austerity is a Dead End”, traduzione dell’intervista rilasciata da A. Tsipras il 29 luglio 2015 a Radio Sto Kokkino. [↩]
- E. Occorsio, Nouriel Roubini: “Grexit, scampato pericolo, sarebbe stato un disastro e avrebbe contagiato anche Italia e Francia”, “la Repubblica”, 14 luglio 2015. [↩]
Tsipras sulla via di Dubcek
Dopo la capitolazione greca, dovrebbe ormai essere chiaro che l’Unione europea è la cittadella del più tetragono capitalismo assoluto. Le prove si rinvengono facilmente sulle labbra candide dei migliori turiferari: «Come ci si sente nel ventre di un protettorato, lo scopriranno i deputati greci in Parlamento stamattina quando sarà chiesto loro di votare in due giorni più leggi che negli ultimi cinque mesi. Non sarà un’impressione aribitraria la loro ma un dato di fatto, a credere a Robert Fico. Ieri mattina all’uscita dal vertice di Bruxelles, il premier slovacco ha descritto la soluzione individuata per la Grecia così: un “protettorato” e, ha aggiunto, “non c’è niente di male in tutto questo”». E ancora: «Vista da Berlino, o dall’Aja, non c’è solo la repressione di una sommossa europea goffamente condotta da Tsipras. C’è soprattutto una dose tipicamente protestante di ruvida educazione ai riluttanti, nel loro interesse»1. Dunque, presunzione assoluta di verità, tanto da sapere meglio dei greci qual è il loro interesse. Ma ciò che bisogna notare nella vicenda del duo Tsipras-Varoufakis, è che per sei mesi le avanguardie di forze disperse ma potenti si sono potute aggirare nei meandri di questa fortezza, tenendo ai tavoli degli altezzosi principi che in essa comandano discorsi “inauditi”. Lo dimostra il fatto che Varoufakis non è stato mai confutato de dicto, ma in re, ovvero nelle sue pose motociclistiche, trattamento che nessun media europeo osa riservare alla carrozzella da cui il ministro delle finanze tedesco lancia i suoi sguardi di torvo asceta del valore di scambio. Quando, dopo il referendum del 5 luglio, la coppia Tsipras-Varoufakis si è scissa, l’inopinata “violazione di territorio” è apparsa ancora più chiara. Tsipras, che aveva cercato un’“Europa dal volto umano”, si è avviato al destino di un Dubcek, sottoposto al waterboarding delle trattative di Bruxelles come il cecoslovacco lo fu con il viaggio che Breznev gli impose nella Mosca imperiale dell’epoca2. Varoufakis, invece, ha rivelato dell’esistenza di un piano di riserva, cioè, assieme ad altre misure, della emissione dei famosi titoli di credito fiscali attraverso cui riguadagnare la sovranità monetaria. Nel caso greco, non c’è stato coraggio o conoscenze sufficienti per avviare una simile misura, e il falco Schaeuble ha fulmineamente rivolto l’arma contro gli intrusi, proponendo lui dei “pagherò” emessi dai greci che sarebbero però degli ulteriori debiti3. Per questa volta, dunque, la mano è persa, ma non c’è dubbio che di tutto ciò faranno tesoro quelle forze potenti ma attualmente disperse di cui si diceva. La natura totalitaria dell’Unione Europea è il punto debole di questa associazione di economie liberistiche. Essa non ammette un contro-discorso al suo interno, ed accumula quindi una crescente tensione verso parti di sé che, o perché provenienti dalla tradizione o perché restie ad accettare la religione liberoscambistica, è necessitata ad espellere. Come i terremoti, non si può dire quando questa tensione tra natura umana e capitalismo, evidentemente non coincidenti, scaricherà la sua energia. Dal 1968 alla caduta del Muro di Berlino passarono trent’anni. Inutile quindi le previsioni. Ciò che è certo è che l’Unione Europea per sua intrinseca natura non può derogare dal suo assolutismo capitalistico, che alimenta divorando se stessa (austerity), poiché solo così riesce a produrre quella potenza che le permette, nella totalizzante religione della merce cui è votata, di competere nella “globalizzazione”, cioè di alimentare la competizione intercapitalistica mondiale. Quando quel terremoto arriverà, è facile prevedere che l’assolutismo capitalistico europeo, proprio per la sua natura totalitaria, si rovescerà repentinamente nel suo contrario, nel senso che i discorsi “inauditi” prolifereranno sul suo corpo ischeletrito, ormai incapace di opporsi alle forze contrarie che con il suo autofagismo ha fatto nascere.
- F. Fubini, “Voto a passo di corsa sul pacchetto. Ma il governo è già in disfacimento”, Corriere della sera, 14.7.2015, p. 3 [↩]
- L’espressione “waterboarding mentale” è di una corrispondenza del Guardian. Cfr. “Greek crisis: surrender fiscal sovereignty in retunr for bailout, Merkel tells Tsipras” [↩]
- “Grecia, Schaeuble suggerisce emissione ‘pagherò’” [↩]
La lettera di Tsipras al popolo greco
Greche e greci,
da sei mesi il governo greco conduce una battaglia in condizioni di asfissia economica mai vista, con l’obiettivo di applicare il vostro mandato del 25 gennaio a trattare con i partner europei, per porre fine all’austerity e far tornare il nostro paese al benessere e alla giustizia sociale. Per un accordo che possa essere durevole, e rispetti sia la democrazia che le comuni regole europee e che ci conduca a una definitiva uscita dalla crisi.
In tutto questo periodo di trattative ci è stato chiesto di applicare gli accordi di memorandum presi dai governi precedenti, malgrado il fatto che questi stessi siano stati condannati in modo categorico dal popolo greco alle ultime elezioni. Ma neanche per un momento abbiamo pensato di soccombere, di tradire la vostra fiducia.
Dopo cinque mesi di trattative molto dure, i nostri partner, sfortunatamente, nell’eurogruppo dell’altro ieri (giovedì n.d.t.) hanno consegnato una proposta di ultimatum indirizzata alla Repubblica e al popolo greco. Un ultimatum che è contrario, non rispetta i principi costitutivi e i valori dell’Europa, i valori della nostra comune casa europea. È stato chiesto al governo greco di accettare una proposta che carica nuovi e insopportabili pesi sul popolo greco e minaccia la ripresa della società e dell’economia, non solo mantenendo l’insicurezza generale, ma anche aumentando in modo smisurato le diseguaglianze sociali.
La proposta delle istituzioni comprende misure che prevedono una ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, nuove diminuzioni dei salari del settore pubblico e anche l’aumento dell’IVA per i generi alimentari, per il settore della ristorazione e del turismo, e nello stesso tempo propone l’abolizione degli alleggerimenti fiscali per le isole della Grecia.
Queste misure violano in modo diretto le conquiste comuni europee e i diritti fondamentali al lavoro, all’eguaglianza e alla dignità; e sono la prova che l’obiettivo di qualcuno dei nostri partner delle istituzioni non era un accordo durevole e fruttuoso per tutte le parti ma l’umiliazione di tutto il popolo greco.
Queste proposte mettono in evidenza l’attaccamento del Fondo Monetario Internazionale a una politica di austerity dura e vessatoria, e rendono più che mai attuale il bisogno che le leadership europee siano all’altezza della situazione e prendano delle iniziative che pongano finalmente fine alla crisi greca del debito pubblico, una crisi che tocca anche altri paesi europei minacciando lo stesso futuro dell’unità europea.
Greche e greci,
in questo momento pesa su di noi una responsabilità storica davanti alle lotte e ai sacrifici del popolo greco per garantire la Democrazia e la sovranità nazionale, una responsabilità davanti al futuro del nostro paese. E questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum secondo la volontà sovrana del popolo greco.
Poche ore fa (venerdì sera n.d.t.) si è tenuto il Consiglio dei Ministri al quale avevo proposto un referendum perché sia il popolo greco sovrano a decidere. La mia proposta è stata accettata all’unanimità.
Domani (oggi n.d.t.) si terrà l’assemblea plenaria del parlamento per deliberare sulla proposta del Consiglio dei Ministri riguardo la realizzazione di un referendum domenica 5 luglio che abbia come oggetto l’accettazione o il rifiuto della proposta delle istituzioni.
Ho già reso nota questa nostra decisione al presidente francese, alla cancelliera tedesca e al presidente della Banca Europea, e domani con una mia lettera chiederò ai leader dell’Unione Europea e delle istituzioni un prolungamento di pochi giorni del programma (di aiuti n.d.t.) per permettere al popolo greco di decidere libero da costrizioni e ricatti come è previsto dalla Costituzione del nostro paese e dalla tradizione democratica dell’Europa.
Greche e greci, a questo ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettiva di ripresa sociale ed economica, vi chiedo di rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci. All’autoritarismo e al dispotismo dell’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione.
La Grecia è il paese che ha fatto nascere la democrazia, e perciò deve dare una risposta vibrante di Democrazia alla comunità europea e internazionale.
E prendo io personalmente l’impegno di rispettare il risultato di questa vostra scelta democratica qualsiasi esso sia.
E sono del tutto sicuro che la vostra scelta farà onore alla storia della nostra patria e manderà un messaggio di dignità in tutto il mondo.
In questi momenti critici dobbiamo tutti ricordare che l’Europa è la casa comune dei suoi popoli. Che in Europa non ci sono padroni e ospiti. La Grecia è e rimarrà una parte imprescindibile dell’Europa, e l’Europa è parte imprescindibile della Grecia. Tuttavia un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza bussola.
Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci.
Per la sovranità e la dignità del nostro popolo.
Alexis Tsipras
Fonte: Newsletter Micromega 28.6.2015 h 02:02
Ecco com’è la nuova religione della merce
La religione della merce sembra una bubbola intellettuale, ma della sua esistenza la realtà quotidiana offre prove a tutte le latitudini. In India, il primo ministro indiano Narendra Modi è determinato a mobilizzare l’oro dei principali templi induisti, che secondo le stime ammonterebbe a circa 2.500 tonnellate delle 20.000 circa in possesso di privati1. Oro inoperoso, secondo i teorici della teologia mercantile, e il governo Modi vuole vederlo usato per la moderna religione dei commerci e degli investimenti. Da migliaia di anni la società indù dona quest’oro ai templi, che lo amministrano attraverso i loro fondi. Di solito, mentre i fedeli si accalcano per protendere offerte di fiori e dolci verso i loro idoli di pietra, fuori le autorità del tempio vendono all’asta i gioielli donati, per raccogliere denaro da destinare a scopi caritatevoli. La moderna religione della merce non fa la carità ma concede degli interessi. Il ministro dell’Economia indiano, sua eccellenza il teologo Jayant Sinha, parlando nel linguaggio senza fronzoli di questa nuova religione immanente, si dice sicuro che non è un problema di fiducia nel governo, ma di logica commerciale: “riguardo all’interesse è uno dei classici casi in cui bisogna trovare la percentuale giusta”. Questa nuova religione, tanto anonima quanto persuasiva, fa breccia anche nei più ferventi fedeli della vecchia religione dell’oro inoperoso. Narendra Murari Rane, presidente del fondo del tempio di Ganesh, la divinità con la testa di elefante, dice che aspetta di vedere se il Governo offrirà condizioni favorevoli per chi depositerà l’oro nelle banche. “Lo prenderemo in considerazione”, dice a proposito del piano. “Se il risultato è migliore delle nostre aste, forse sì. Possiamo prenderlo in considerazione solo se i profitti sono più alti”. Ecco che già il tempio di Ganesh si svuota, rimpiazzato da quello del Profitto, la divinità senza testa ma dagli infiniti e invisibili tentacoli. Infatti, se l’oro inoperoso, custodito nei forzieri dei templi indù, serviva a fare dei singoli atti di carità, trasferito nei caveau bancari, servirà a speculare sulla soia, comprare armi e anche fare la carità. Così, i nuovi Narendra Murari Rane non saranno più opachi amministratori dell’arcaico Ganesh, ma completeranno la loro metamorfosi in scintillanti sacerdoti dello Sfrenato Movimento, che renderà puramente esornative le offerte dei fedeli, dal momento che il Profitto stillerà interessi da tutti i lati. Come le religioni che soppianta, la religione della merce non è solo una religione, ma anche un regime politico, anzi, non esisterebbe se non avesse l’appoggio del braccio politico secolare. Come al solito, sono i teologi delle banche a svelare l’arcano. In un suo report sull’Italia, Daniele Antonucci, teologo analista capo per il Sud Europa della Morgan Stanley, sviscerando i dati con l’acuminato puntatore del suo desktop pc hexa core, pronostica che l’economia italiana avrà nell’immediato futuro la migliore performance fra le confraternite europee, e ciò non solo per le riforme economiche intraprese dagli ultimi fervorosi governi, specie da quello in carica, ma anche per le riforme istituzionali da essi operate. Infatti, come si sottolinea nel report, tali modifiche liturgiche sono una “base altrettanto importante per una più rapida e certa attuazione delle misure economiche”2. Solo dei miscredenti potrebbero sostenere che la democratura di cui tanto si dibatte, è la base dell’odierna dittatura economica. Invece, è solo la religione della merce che stende suadente il suo velo su uomini e cose, trasfigurandoli in una nuova e onnicomprensiva realtà: “per ora le piazze di Atene sono vuote, ma l’accordo (riservato) da 500 milioni che il governo ha concluso per le navi da guerra americane P-3B Orion ha un significato preciso: Tsipras spende in armamenti più del doppio di quanto impieghi contro la ‘crisi umanitaria’ perché non è certo di avere la fedeltà dell’esercito, quindi intende comprarsela”3. Rapida, certa e riservata, ecco com’è la nuova religione della merce, che dice messa voltando le spalle ai fedeli e alzando in cielo un mobile zecchino d’oro raggiante, perché tutti capiscano che è il momento di scambiarsi un pacchetto di oil swaps.
- E. Barry, L’ultima sfida di Modi “Il tesoro della dea Kali nelle casse dell’India”, “la Repubblica”, 23 aprile 2015, p. 20 [↩]
- E. Occorsio, Morgan Stanley promuove l’Italia: “Sarà la sorpresa dell’Eurozona”, “la Repubblica”, 23 aprile 2015, p. 16 [↩]
- F. Fubini, Atene a rischio uscita piano Draghi per l’euro blindare le banche e cessione di sovranità, “la Repubblica”, 24 aprile 2015, p. 27 [↩]