L‘ideologia nazionalista, neoisolazionista e primatista, cioè centrata sulla superiorità dell’etnia bianca, ha consentito a Trump di essere eletto con il voto decisivo dei proletari destrificati dall’ultima tornata di globalizzazione capitalistica. Ottenuto il potere, dopo alcune mosse puramente dimostrative, come il decreto sugli immigrati rigettato dai tribunali e l’attacco fallito alla riforma sanitaria di Obama, ha cominciato ad appoggiarsi a ex generali per la difesa e la sicurezza interna, e a governare insieme ad imprenditori e finanzieri come i ministri del Tesoro, degli Esteri e del Commercio, Mnuchin, Tillerson e Ross, e a banchieri ex Goldman Sachs, come Gary Cohn e Tina Powell, nominandoli consiglieri per l’economia e la politica estera. E tutto ciò, sicuro come sempre che, come lui stesso disse durante la campagna elettorale, «potrei sparare a qualcuno in mezzo alla Fifth Avenue e non perderei nemmeno un voto»1, ovvero sono il grande stregone di una politica ridotta a circo mediatico-pubblicitario, in cui mi si crede a prescindere. Trump, insomma, ha portato a termine con il suo brand la missione di perpetuare il periclitante dominio del complesso affaristico-militare2 che, in quella “grande disgregazione” etnica che è la società americana3, ha ancora il suo asse egemone nell’America wasp. Egli, adesso, può anche riposarsi, dedicandosi alle relazioni pubbliche, le sole in cui veramente eccelle, mentre i generali testano rabbiosamente i loro ordigni in territori che la ormai cronica mancanza di un governo centrale degrada a comodi poligoni di tiro, come in Afghanistan, in cui gli innocenti possono morire senza che nessun timorato di Dio debba temere di dover pagare i suoi crimini nel giorno del giudizio, anche perché è giusto ai fini di una sempre più faticosa pax mondiale a stelle e strisce andare a vedere il bluff atomico della Corea del Nord. C’è però chi pensa che i venti di guerra siano solo refoli delle grandi correnti commerciali. Tra questi, Romano Prodi, che vede in Trump il solito fasso tuto mi che la realtà si incarica di mettere a posto: «ma cosa vuoi fare e brigare con un paese come la Cina? Guardate come sta usando appunto la Corea del Nord: alla grande!». «Alla grande?», chiede il giornalista sbigottito. E Prodi, con l’allegria del commesso viaggiatore della grande globalizzazione: «La Corea del Nord vive perché la fa vivere la Cina. Materie prime, cibo. Gli americani lo sanno e vogliono che i cinesi si muovano. La verità è che per i cinesi la Corea del Nord vale un niente del commercio estero. E quindi possono anche chiudere il confine senza sacrifici: ma facendo così agli americani un favore enorme. E qui scatta il do ut des. Adesso, diranno, tocca a voi pagare: state buoni, per esempio, sulle restrizioni commerciali»4. E se la juche, questa ipertrofia dell’autonomia, fosse per la Corea del Nord non solo la garanzia della propria indipendenza, ma anche lo strumento della propria psicotica potenza? E se l’egemonismo cinico di Trump, costringendo la Cina ad un confronto con la Corea del Nord da cui uscirebbe perdente, la precipitasse in una nuova povertà, questa volta non più quella antica delle campagne, espressione di una arcaica stagnazione che aveva una sua sostenibilità sociale, ma quella di un urbanesimo industriale e terziario dai costi via via più grandi, e perciò tanto più degradata? Costringendola così a mettere in discussione il denghismo che l’ha retta sino ad oggi, e a riscoprire un maoismo ridotto ormai solo al collante nazionalistico? E il quadro diventa ancora più fosco se si considera la coda di paglia della Russia connection che il magnate americano assurto a uomo di Stato si porta dietro. Perché, nonostante la scaramuccia in Siria, è molto probabile che il suo egemonismo cinico faccia blocco, bon gré mal gré, con l’affarismo putiniano, cui è visibilmente subalterno. Ma che ne sarà di questo blocco quando entrerà in contraddizione con i “valori eurasiatici” – Dio, patria, famiglia tradizionale – tanto cari ad Aleksandr Dugin5, ascoltato consigliere di Putin? Saranno questi valori destinati alla stessa fine dei “valori cristiani”, di cui negli ultimi due secoli è stata custode nel blocco euroamericano la Chiesa di Roma, cioè a divenire foglie di fico di un mondo dominato solo dalla “non-etica degli affari”? Oppure, i dominati dell’Est e dell’Ovest, scoperto l’inganno degli infimi miglioramenti materiali derivanti dalla rivitalizzazione di produzioni “novecentesche” (auto, infrastrutture stradali, e tutto quanto legato a petrolio e cemento), si solleveranno selvaggiamente nella sovrastruttura, parlando il violento linguaggio degli antichi valori profanati6? Tutto ciò per dire che quando l’egemonia non è decentramento strategico ma cinismo elettorale, ovvero semplice forza corazzata di consenso, le cose non possono che prendere una brutta piega. E che contro questa reductio dell’egemonia alle arti magiche della persuasione, tipica dell’attuale dittatura del capitale, sbrigativamente denominata nelle sue multiformi manifestazioni come “populismo”, l’unica ricetta non può che essere il perseguimento della contro-dittatura. Lo dimostra il fatto che le deviazioni tattiche, da Tsipras a Sanders, non aprono vie per il futuro, ma demoralizzano e disperdono gli eserciti che dovrebbero condurre la battaglia contro-egemonica.
- M. Gaggi, “Sorprese e dietrofront: ma Trump non cambia la sua visione tribale della politica (e della vita)”, Corriere della sera, 15 aprile 2017, p. 2. [↩]
- P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, (1966), Torino, Einaudi, 1968. [↩]
- F. Aqueci, Il lupo per le orecchie. La questione meridionale al di qua e al di là dell’Atlantico, «Il Contributo», gennaio/dicembre 2014, pp. 29-61. [↩]
- M. Aquaro, “La risposta di Pechino non ci sarà gli Usa cederanno sul commercio”, la Repubblica, 16 aprile 2017, p. 4. [↩]
- F. Aqueci, Tra Dugin e Huntington. Epistemologia dello scontro di civiltà, «Politeia», n. 119, settembre 2015, pp. 10-23. [↩]
- P. Cherchi, Il tramonto dell’onestade, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017. [↩]