Un vero Stato etico è quello che programma il suicidio dello Stato. Questo, il punto di vista di Gramsci, così chiaramente espresso: «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale»1. Eppure c’è chi da questo passo tira l’idea di un cambiamento in cui «i comunisti, grazie alla cultura e al ruolo degli intellettuali, allarghino il più possibile il consenso, fino a farsi gradualmente stato»2. Sembra un marchiano fraintendimento, ma qui più che l’errore interpretativo conta il bisogno ideologico che con esso si manifesta. Oggi c’è voglia di Stato. Lo vogliono coloro che si sentono oppressi da quello Stato non Stato che è l’Unione Europea, e lo vogliono coloro che per paura che l’Unione Europea si sfasci, vogliono un grande Stato federale. Lo vogliono gli ucraini filorussi, che non accettano il “cambio di civiltà” e proclamano le loro “repubbliche autonome”, e lo vogliono gli ucraini filoccidentali, che affermando lo Stato indipendente ucraino, possono mettersi sotto le ali della Nato e dell’Unione Europea. Lo vogliono gli islamisti che, dalla Siria e dall’Iraq, hanno proclamato il “califfato”, e lo vogliono i curdi, che con lo Stato possono difendersi dalla barbarie islamista e riscattarsi da una servitù secolare. E si potrebbe continuare. Oggi i popoli non vogliono spezzare lo Stato, ma restaurarlo. Cos’è questa voglia di Stato? Forse che è la voglia di parlamenti, di burocrazie, di apparati? Per nulla, anzi, i parlamenti e i partiti sono disprezzati, le burocrazie odiate, gli apparati detestati. Cos’è, allora, questa voglia di Stato? Oggi lo Stato, dicono alcuni, è ciò che, incarnando la “civiltà”, fa ritornare il popolo alla comunità originaria, dove un leader interpreta la sua volontà, e gli permette di partecipare al suo destino3. Ma qual è il destino del popolo? Il popolo oggi sa che deve trovarsi un territorio, che deve riprodursi, che deve mangiare e bere, che deve soddisfare le sue fantasie e i suoi desideri, oggi il popolo sa tutte queste cose, tranne qual è il suo destino. Il popolo è come un bambino perso nel buio, che aspetta chi lo prenda per mano e lo conduca in salvo. Ma coloro che si offrono a ciò, i capi, non sanno loro stessi dove andare, perché il popolo ignora il suo destino. Come si può interpretare qualcosa che si ignora? Allora, per brama di comando, i capi adulano il popolo, e gli fanno credere di poterlo salvare. Il popolo subodora l’inganno, e li odia a morte, ma è costretto ad amarli, perché sono loro gli interpreti del suo destino. In questo inferno populistico, la vera rivoluzione allora non può che essere quella del popolo contro se stesso. Il popolo oggi è il parassita di se stesso. Deve abbattere se stesso per scuotersi dall’ignoranza del proprio destino. Nessuno può dire al popolo qual è il suo destino, se non il popolo stesso abbattendo la propria ignoranza. Ma cosa si può fare perché ciò non resti solo un’aspirazione morale? Il popolo dovrebbe tornare a fare politica, riscoprire la società, ma il popolo ha altro per la testa. Deve soddisfare le sue fantasie e i suoi desideri, come gli impone l’imperativo consumistico, ma deve provvedere anche alla sua miseria e ai suoi bisogni, che sono tornati a crescere. Il popolo, nella pancia e nella testa, è sfruttato come non mai da un secolo a questa parte. Ecco, allora, che sorge il bisogno primitivo dello Stato. Lo Stato come strumento per spezzare lo sfruttamento, per sottrarsi all’ingiustizia. Sottomettersi a quella vecchia canaglia dello Stato, per avere quella giustizia che sempre lo Stato ha negato.